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giovedì 27 settembre 2012

In “The words” i registi Brian Klugman e Lee Sternthal affrontano il dilemma: le parole condizionano la vita di un uomo?

Titolo: The words
Regia: Brian Klugman e Lee Sternthal
Sceneggiatura: Brian Klugman e Lee Sternthal
Produzione: Stati Uniti, 2012
Cast: Bradley Cooper, Jeremy Irons, Dennis Quaid, Zoe Saldana, Nora Arnezeder, Olivia Wilde, Ben Barnes, J.K. Simmons, Michael McKean, […]

Bello, coinvolgente e senza dubbio interessante questo film “The words” dal sapore brectiano, diretto a quattro mani da Brian Klugman e Lee Sternthal che hanno fatto avvicendare i protagonisti attorno alle parole, alle parole di un libro, quelle parole che lasciano il dubbio su ciò che esse vogliono esprimere: la realtà o la finzione, la vita che si è costretti a vivere o la vita che si vorrebbe vivere ? A volte dietro le parole ci si perde e si perde il senso della vita e con esso si abbandonano anche le persone care. A volte dietro le parole c’è solo menzogna o anche immaginazione o invenzione. A volte ancora si ricorre alle parole per non affrontare i problemi della vita. Questo è ciò che sostiene uno dei personaggi più misteriosi del film, il vecchio (Jeremy Irons), quando afferma che  "La mia tragedia è stata amare tanto le parole, più della donna che le ha ispirate". E le parole scritte diventano pesanti come macigni indistruttibili.
Il film ruota su tre personaggi ognuno dei quali, Rory Jansen (Bradley Cooper), Clay Hammond (Dennis Quaid) e il vecchio (Jeremy Irons), è uno scrittore. Il primo è uno scrittore fallito che ha successo imprevedibilmente per avere pubblicato un libro copiando un manoscritto capitato tra le sue mani per caso, il secondo è uno scrittore di successo che presenta in modo originale le diverse sfaccettature dello scrittore e il terzo è uno scrittore svanito, un uomo che  lasciandosi trasportare dalla foga di scrivere perde l’amore della donna che lui ama sconvolgendo così l’intera sua esistenza. In tutti e tre i casi, ognuno di loro ha fatto una scelta e quella scelta gli ha condizionato la vita, il proprio modo di essere. Ma questo non è forse il dilemma shakespeariano: To be, or not to be: that is the question, Essere o non essere: questo è il problema. Quando un individuo si trova dinnanzi ad un bivio qual è la scelta migliore da fare? Spesso egli si lascia trasportare dalle circostanze e dai suoi sentimenti e quando ne prende coscienza non sempre sarà possibile cambiare la rotta. Quella scelta fatta gli condizionerà la vita per sempre, irreversibilmente. Le scelte sono come le parole. Scripta manent! E poi ci saranno delusioni o soddisfazioni?
I registi sono stati abili nell’elaborazione della sceneggiatura e nella conduzione degli attori, tutti bravi, che lasciano continuamente lo spettatore con il fiato sospeso e alla fine con l’amaro in bocca.

domenica 23 settembre 2012

Nel film “Il rosso e il blu” Giuseppe Piccioni mette in risalto l’importanza e il valore della scuola pubblica italiana

Titolo: Il rosso e il blu
Regia: Giuseppe Piccioni
Soggetto: Marco Lodoli
Sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Francesca Manieri
Produzione: Italia, 2012
Cast: Margherita Buy, Roberto Herlitzka, Riccardo Scamarcio, Silvia D’Amico, Lucia Mascino, Davide Giordano, Nona Torresi, Ionu Paun, Gene Gnocchi, […]



Questo di Giuseppe Piccioni ,“Il rosso e il blu”,  che rimanda ai colori con i quali si segnano gli errori lievi e gli errori gravi di un elaborato scolastico, è un film sulla scuola italiana tratto dall’omonimo libro di Marco Lodoli che, oltre ad essere scrittore e giornalista, è soprattutto un insegnante. Vi si descrive la scuola italiana tanto bistrattata e depauperata di tutti quei valori inestimabili e sacrosanti che essa si è costruita via via nel tempo, dove emerge la contrapposizione manifestamente tra la comprensione, la disponibilità al dialogo e la condiscendenza mostrate dal prof. Prezioso (Riccardo Scamarcio), giovane supplente di Italiano e Storia, con il disappunto, il disamore, l’indifferenza e il cinismo del prof. Fiorito (Roberto Herlitzka) insegnante di Storia dell’arte, ormai prossimo alla pensione. A cui si aggiunge il comportamento timoroso e insicuro della preside Giuliana (Margherita Buy) che, piuttosto che fare i conti con il suo nuovo ruolo di dirigente, deve sopperire personalmente a quei compiti che sono di norma demandati ad altre figure professionali della scuola, come i “bidelli” o meglio i “collaboratori scolastici”, a cui è assegnato, tra l’altro, il compito di aprire la scuola o di mettere la carta igienica nei bagni degli studenti. Si tratteggiano nel film i connotati scolastici attuali come la mancanza di punti di riferimento certi, cioè di punti fiduciali da cui partire, o come il disordine in contrapposizione a quell’ordine, a quell’armonia, a quell’educazione, a quell’equilibrio interiore che dovrebbero rappresentare i pilastri della Cultura e quindi di un’istituzione altamente formativa ed educativa come la Scuola.
Film recentissimi hanno parlato recentemente di scuola, come “Lezioni di sogni” di Sebastian Glober (Germania, 2011), che per certi aspetti ricalca la trama del famosissimo ”Attimo fuggente” di Peter Weir, dove emerge il contrasto tra i metodi didattici anticonvenzionali, informali e insoliti, ma efficaci, e l’intolleranza  dei genitori “benpensanti” retrogradi e conservatori, oppure come il film “Detachment” di Tony Kaye  (USA, 2011), dove viene marcato piuttosto l’atteggiamento di “distacco” dei docenti nei confronti dei loro studenti che vengono difesi a spada tratta dai loro genitori che imprecano su tutte le figure professionali della scuola con una violenza gratuita e ingiustificata, denigrandola. A differenza di tutto ciò, “Il rosso e il blu”, invece di rimarcare i malanni ancestrali della scuola italiana, a cui accenna soltanto (tra cui la profonda ignoranza diffusa tra gli studenti, la fatiscenza degli edifici, la mancanza delle cose più essenziali come le penne o la carta igienica o le fotocopie, la strumentazione didattica fuori uso, laboratori inesistenti, a cui si aggiunge la frustrazione endemica degli insegnanti), cerca di proporre quale sia la cura della nostra scuola malata. Tale cura, che consiste nell’alimentare il comportamento del prof. Prezioso e nel trasformare il cinismo del prof. Fiorito in interesse e partecipazione attiva, si basa nel promuovere innanzitutto la realizzazione di un rapporto empatico essenziale tra il docente e lo studente, premessa necessaria alla motivazione e quindi allo studio di quest'ultimo, e si fonda nel privilegiare il merito e nel rivalutare il ruolo degli insegnanti. Di costoro, a partire dalla metà degli anni settanta, le istituzioni hanno determinato gradualmente la perdita della dignità professionale, generando umiliazione, frustrazione, depressione, demotivazione, disinteresse, cinismo e annullamento del loro prestigio sociale, e, conseguentemente, inefficacia della loro azione nella trasmissione della cultura con indubbio impoverimento culturale dei giovani e quindi dell’Italia che, a causa di ciò, è stata travolta e dominata da una squallida e deprimente sottocultura. Oserei dire che tutto ciò, in parte, ha determinato la situazione catastrofica civile e morale in cui è caduto il nostro Paese. Il regista Giuseppe Piccioni, infatti, sostiene che “bisogna difendere ad oltranza il valore della scuola pubblica, del diritto dei giovani a poter accedere alla cultura”. Senza la Cultura, infatti, il paese è destinato ad impoverirsi ulteriormente dando spazio all’arroganza degli ignoranti. Per  questo “Il rosso e il blu” è un film che dovrebbero vedere non solo studenti e insegnanti ma tutti i cittadini al fine di comprendere a fondo il ruolo fondamentale della scuola a difesa della Cultura, o meglio della trasmissione della Cultura che è linfa vitale per un futuro prospero e vivibile del nostro bel Paese. Per questo “Il rosso e il blu” è un film che fa intravedere che la Scuola può uscire dal lungo tunnel in cui si trova.

giovedì 20 settembre 2012

Con il film “È stato il figlio”, Daniele Ciprì descrive con uno stile grottesco-surrealista una società dominata da degrado umano

Titolo: È stato il figlio
Regia e soggetto: Daniele Ciprì
Sceneggiatura: Daniele Ciprì, Miriam Rizzo, Massimo Gaudioso
Produzione: Italia, 2012
Cast:  Toni Servillo, Giselda Volodi, Aurora Quattrocchi, Fabrizio Falco, Alfredo Castro, Benedetto Ranelli, Piero Misuraca, Pier Giorgio Bellocchio, […]


In questo film Daniele Ciprì descrive, con un linguaggio originale e bizzarro, un’umanità brutta, sporca, deforme, immedesimata nella famiglia Ciraulo, dove povertà, miseria, ignoranza si tagliano a fette e dove la vita ha poco valore, dove al contrario la morte paradossalmente assume un ruolo preponderante, fondamentale, addirittura pone le basi di un solido sostegno economico e di una migliore visibilità sociale, in altre parole la morte costituisce una risorsa umana. Ciprì riesce efficacemente con una crudezza realistica e con un raffinato e sottile gusto del tragicomico a usare  le diverse maschere dei molteplici personaggi, alcune reali -  quella di Aurora Quattrocchi (Nonna Rosa) e  quella di Giselda Volodi (Loredana Ciraulo) o ancora quella malinconica di Alfredo Castro (Busu) – e  altre sofisticate – eccellente, particolare e bizzarra quella di Toni Servillo (Nicola Ciraulo). Maschere di individui miserabili disgraziati, reietti, inserite in un contesto grottesco paradossale bizzarro mostruoso, per certi aspetti buffo, di carcasse arrugginite e di cupo e introverso squallore dove la solitudine, la cattiveria, la miseria, l’ignoranza e soprattutto la fame costituiscono la metafora di una parte della società alla deriva, quella miserabile e povera sia di beni materiali che umani, abbandonata a se stessa su una strada di non ritorno, nascosta alla altra parte della società caratterizzata da una falsa opulenza e da un’accattivante tecnologia che mira ad un benessere virtuale e spietato dove il consumismo e l’ostentazione della “falsa ricchezza” annientano qualunque aspirazione che tenda alla dignità umana. Ciprì è maestro nel descrivere un ambito urbano ghettizzato, isolato, quasi al di fuori o meglio lontano dalla civiltà tanto sospirata, un’isola brutta che rasenta similmente quella di un inferno dantesco, dove la fame ancestrale degli abitanti può essere appagata da superflui mezzi tecnologici, e dove l’improvvisa sovrabbondanza di denaro disarma l’intelletto, ponendolo quasi dinnanzi al dilemma shakespeariano. Non è un caso, infatti, che  il capofamiglia, Nicola Ciraulo, piuttosto che cercare di risolvere i problemi indigenti propri e della famiglia affida il “benessere” familiare al falso godimento offerto dalla tecnologia – una Mercedes - che oltretutto fa benedire con l’acqua santa sotto il segno della croce. Emerge così un’umanità arida, sterile, inerme, inetta, diseducata, ma anche abbandonata a se stessa, che riempie il dolore causato dalla perdita di un affetto caro con un bene materiale o fittizio - appunto la Mercedes nera o l’accordo disumano, illegittimo, violento, verbale che Nonna Rosa confeziona con il nipote Masino (Piero Misuraca) -, che conducono irrimediabilmente ad una incontrollabile disgregazione sociale e ad un palese deterioramento antropologico. Emerge, dunque, il quadro di una società dove attecchiscono facilmente la violenza mafiosa e lo strozzinaggio, dove la vita perde quel naturale valore che invece viene acquisito dalla morte e dove a perdere sono sempre gli innocenti e i più deboli, alias i “vinti” di concezione verghiana destinati comunque a soccombere.
Il film, tratto liberamente dal romanzo omonimo (2005) di Roberto Alajmo finalista al premio Viareggio e adornato da diversi premi, è stato presentato alla 69^ Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia 2012 ottenendo il Premio per il migliore contribuito tecnico e il Premio Marcello Mastroianni a Fabrizio Falco che nel film veste i panni del giovane Tancredi Ciraulo.

martedì 18 settembre 2012

Nel film di Marco Bellocchio “Bella addormentata” il profilo di “un’Italia cinica e depressa”

Titolo: Bella addormentataRegia: Marco Bllocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Veronica Raimo, Stefano Rulli Produzione: Italia, 2012
Cast: Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Michele Riondino, Isabelle Huppert, Maya Sansa, Brenno Placido, Pier Giorgio Bellocchio, Fabrizio Falco, Gianmarco Tognazzi, Roberto Herlitza, Gigio Morra, […]

Il film “Bella addormentata” di Marco Bellocchio affronta il problema dell’eutanasia prendendo spunto dal caso di Eluana Englaro, la ragazza rimasta in coma per diciassette anni che viene fatta trasportare su decisione del padre in un’ospedale di Udine per interrompere il trattamento terapeutico forzato che la teneva in vita. E l’affermazione nel film dello psichiatra (Roberto Herlitza) sancisce ciò "La vita è una condanna a morte, quindi non c'è tempo da perdere". La decisione di interrompere il trattamento sconvolse allora le coscienze degli italiani dividendoli in due fazioni opposte (Guelfi e Ghibellini di storica memoria?): quelli a favore della salvaguardia della vita a tutti i costi e quelli a favore di un diritto civile, quello dell’eutanasia, che come tutti i diritti civili dovrebbe far parte di quel valore molto più ampio che si chiama “libertà individuale”.

La fabula su cui ruota il film è basata sull’asserzione che "L'amore cambia il modo di vedere le cose" detta da Maria (Alba Rohrwacher) la figlia del senatore del PdL, Uliano Beffardi (Toni Servillo) che concentra il messaggio che il regista vuole dare allo spettatore/cittadino con questo bellissimo e magnifico film presentato alla 69^ Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia. E mi piace a riguardo, per rafforzare il concetto, citare l’ultimo verso del XXXIII canto del Paradiso di Dante Alighieri: “…l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Ogni nostro gesto è umanamente accettato se dettato dall’amore. A volte per amore siamo costretti, ob torto collo, a prendere decisioni individuali che non sono condivise da altri per coscienza o per presa di posizione di parte.

Il film che si svolge nell’arco di una settimana, agli inizi del mese di febbraio 2009, alcuni giorni prima della morte di Eluana, racconta le vicissitudini del senatore Beffardi che si reca a Roma convocato per votare il decreto che il governo di Berlusconi vuole approvare urgentemente per impedire che il padre di Eluana portasse a termine la sua decisione. Beffardi ha una crisi di coscienza e non vuole votare quella legge che ritiene ingiusta anche perché lui si è trovato in una situazione simile a quella di Englaro, anzi vuole dimettersi dal partito, dove vige il “pensiero unico”, che inibisce la volontà decisionale individuale di ogni parlamentare. Parallelamente a questa storia, nel film si intrecciano altre storie. Quella di un medico, Pallido (Pier Giorgio Bellocchio) che cerca di salvare la tossicodipendente Rossa (Maya Sansa) dal suicidio, e quella di un’attrice, Divina Madre (Isabelle Huppert) che per assistere la figlia in coma, ha perso il senso della vita abbandonando sia il figlio che il marito. Bellocchio in questo film come del resto negli altri suoi film prende posizione facendo emergere che la politica molto spesso non soddisfa i bisogni di umanità del popolo che essa governa, ed esprime anche il suo punto di vista sia nei confronti della Chiesa che difende i suoi dogmi a spada tratta sia nei confronti dei politici che nel legiferare non si comportano secondo coscienza ma secondo i dettami della loro dirigenza partitica.

lunedì 17 settembre 2012

Renato De Maria con il film “La prima linea” descrive lo sconvolgente periodo degli “anni di piombo” in Italia



Titolo: La prima lineaRegia: Renato De Maria
Sceneggiatura: Fidel Signorile, Ivan Cotroneo, Sandro Petraglia
Produzione Paese: Italia, 2009
Cast: Riccardo Scamarcio, Giovanna Mezzogiorno, Fabrizio Rongione, Duccio Camerini, Michele Alhaique,Lino Guanciale, Dario Aita, Piero Cardano, […]

Il film, “La Prima Linea”, tratto dal libro autobiografico “Una vita in Prima Linea” del terrorista Sergio Segio (nel film interpretato da Riccardo Scamarcio) che negli anni settanta aveva fondato appunto l’organizzazione terroristica di sinistra “Prima Linea”, è diretto da Renato De Maria. In questo film, il regista manifesta quello stile freddo, aspro, duro con il quale descrive una realtà sgradevole, crudele, spietata, violenta, che già aveva manifestato con il suo precedente film “Paz!” (2002) la cui sceneggiatura era stata scritta, tra l’altro, da Ivan Cotroneo, passato ultimamente alla cronaca per aver diretto il bel film “La kriptonite nella borsa” (2011). “La prima linea” è un film sul terrorismo manifestatosi in Italia tra gli anni settanta e ottanta, uno dei pochi trasmesso su Rai3, in prima serata venerdì 14 settembre, mostra l’insensatezza di gruppi di giovani idealisti, imprigionati emotivamente in un ideologismo forse di onnipotenza che voleva sovvertire le istituzioni su cui era stata fondata la Repubblica italiana qualche decennio prima, a cui mancava il senso della “bellezza”, che li aveva fatti sprofondare in un baratro senza fondo o meglio gli aveva fatto intraprendere un viaggio senza ritorno. Era ed è un comportamento dei giovani di quell’età che si sentono Dei, dotati quindi del dono dell’immortalità in quanto molto lontani da quella stagione della vita che è chiamata vecchiaia. De Maria si limita, come un giornalista di cronaca, a descrivere i fatti terroristici descritti da Segio senza prendere posizione e senza dare una spiegazione della matrice che ha generato uno dei periodi più bui della storia repubblicana. È una confessione sugli errori fatti e lo dimostrano alcune affermazioni che Segio fa “Abbiamo perso la nostra umanità la prima volta che abbiamo imbracciato un'arma” oppure “Abbiamo scambiato il crepuscolo per alba”. Non dimentichiamo che i cosi detti “Anni di Piombo” hanno inizio con la strage la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, avvenuta il 12 dicembre 1969, dove ci furono 17 morti e 88 feriti, e la morte di Giuseppe Pinelli prima e quella del commissario Luigi Calabresi poi. Con questa strage inizia la cosiddetta “Strategia della tensione” che ha provocato in Italia centinaia di morti e di feriti quasi come in una guerra civile: il 22 luglio del 1970 una bomba alla stazione di Gioia Tauro, in Calabria, provoca 6 morti e 66 feriti; il 17 maggio 1973 alla Questura di Milano ci furono 4 morti e 46 feriti; il 28 maggio 1974 a Brescia, a piazza della Loggia, durante un comizio, ci furono 8 morti e 102 feriti, e, nello stesso anno, il 4 agosto l’attentato al treno Italicus, a san Benedetto in Val di Sambro (BO) provocò 12 morti e 105 feriti; ancora il 2 agosto 1980 ci fu la strage più sanguinosa del periodo, alla stazione ferroviaria di Bologna, con 85 morti e circa 200 feriti e, per finire, ancora a san Benedetto in Val di Sembro nel 1984, l’attentato al treno 904 procurò la morte a 17 persone mentre 260 rimasero ferite. Una carneficina diluita nel tempo che ha prodotto circa 140 morti e quasi 900 feriti. Il fatto più grave che su queste stragi non si è fatta ancora luce.
Ritornando al film, il regista, con continui flashback sulla storia del gruppo di "Prima Linea” e sul percorso terroristico intrapreso da Segio, inizia il racconto dalla preparazione di assalto da parte del gruppo di militanti di Prima Linea al carcere per liberare Susanna Ronconi (Giovanna Mezzogiorno), ivi detenuta, con la quale Segio ha condiviso sia gli affetti che l’ideologia, fino ad arrivare all’arresto definitivo di ambedue che segnò la fine dei relativi atti terroristici. (Francesco Giuliano)

venerdì 14 settembre 2012

Silvestrini con il suo primo film “Come non detto” affronta, in chiave briosa, il problema familiare dell’omosessualità



Titolo: Come non detto


Regia: Ivan Silvestrini
Sceneggiatura: Debora Alessi, Roberto Proia
Produzione: Italia, 2011
Cast: Josafat Vagni, Monica Guerritore, Ninni Bruschetta, Francesco Montanari, Valentina Coreani, Valeria Bilello, Alan Cappelli Goetz, […]




Il regista Ivan Silvestrini con il film “Come non detto”, opera prima, esordisce nel mondo del cinema e dimostra di avere estro e competenza di direzione artistica in quanto usa la macchina da presa con scioltezza e delicatezza.
Affronta in questo film il tema dell’omosessualità inserendolo nel contesto sociale, anzi nel contesto familiare che è l’espressione cellulare del primo, dove il machismo è l’unica licenza che può essere accordata ai figli maschi. Riprende questo film, infatti, un po’ il discorso de “Il bell’Antonio” di Mauro Bolognini (1960) tratto dal romanzo dello scrittore siciliano Vitaliano Brancati, con il quale presenta una matrice comune, quella di presunzione di mascolinità che ha un padre nei confronti del figlio maschio: un figlio maschio deve dimostrare a fortiori la mascolinità posseduta dal padre! Non solo. Viene marcata anche la difficoltà psichica che ha un giovane nel manifestare la propria identità sessuale e nel cercare di superare gli stereotipi sociali che ostacolano tale manifestazione. In effetti, però viene evidenziata per quasi tutta la durata del film da una parte la mancanza di coraggio che il figlio Mattia (il bravo Josafat Vagni che abbiamo visto nel film di Gacomo Campiotti, "Preferisco il paradiso") mostra nei confronti dei genitori, se pur separati, la madre Aurora (Monica Guerritore) e il padre Rodolfo (Ninni Bruschetta) che ha una certa predisposizione nei confronti delle donne, nel rivelare il suo status, e dall’altra l’accettazione consapevole ma non rivelata, se pur sofferta, dei genitori di questo status del figlio. Il regista nella parte finale del film, tuttavia, fa meditare sul fatto che forse l’omosessualità maschera l’eterosessualità. Lo dimostra la frase di Mattia nel commiatarsi dall’amica Stefania (la bella Valeria Bilello) prima di partire per la Spagna dove andrà a convivere con il suo compagno amato Eduard (Josè Damment): “Stefania! Anche se fossi etero me ce avrest portato tu co ‘sta fiatella sull’altra sponda…”. La maggior parte degli attori, pur essendo alle prime armi o quasi nel mondo del cinema, tranne Monica Guerritore di indiscutibile bravura e il simpatico Ninni Bruschetta, rivelano scioltezza, piacevolezza e gradevolezza. Un film da vedere, dunque, anche perché è divertente e brioso.

venerdì 7 settembre 2012

Nel film “The Lady – L’amore per la libertà” il regista Luc Besson mostra quanto sia difficile conquistare la libertà perduta.



Titolo: The Lady – L’amore per la libertà
Regia: Luc Besson
Sceneggiatura: Luc Besson, David Marconi, Rebecca Frayn
Produzione: Gran Bretagna, Francia, 2011
Cast: Michelle Yeoh, David Thewlis, William Hope, Susanne Wooldrige, Martin John King […]



Con lo stesso stile mostrato in Leon e Nikita, un po’ meno in Giovanna D’Arco, il regista Luc Besson con questo film sulla pacifista birmana Aung San Suu Kyi (Michelle Yeoh), definita dal quotidiano britannico Times “Orchidea d’acciaio” e da altre testate la “Mandela birmana”, colpisce con sagacia e maestria il cuore dello spettatore in quanto affronta il problema della libertà, libertà dalla tirannia, libertà dalla paura. Luc Besson, che nei suoi film ama descrivere la violenza che pullula nel mondo in maniera esagerata, talvolta inventata, per colpire emotivamente lo spettatore, questa volta in The Lady descrive la violenza reale, visibile, quotidiana, documentata, che viene esercitata dalla dittatura militare sul popolo birmano. Aung San Suu Kyi è una donna bella, esile, dal viso dolce e sempre sorridente, ma mostra una forza d’animo e una fermezza così grandi che le conferiscono un eccezionale impulso a lottare in modo pacifico per la libertà del proprio popolo da un governo militare totalitario, il cui apice mostra di affidarsi più alla superstizione nelle scelte politiche da fare piuttosto che sulla razionalità, sulla correttezza, sulla tolleranza e sul rispetto della dignità umana.
Nella scelta molto sofferta che l’allontana definitivamente dagli affetti dei figli Alexander e Kim, Aung San Suu Kyi è aiutata molto dal marito britannico Michael Aris (David Tewlis), professore di cultura tibetana, convinto assertore della libertà dei popoli come valore della vita primario, inalienabile e irrinunciabile. È lui che contribuisce a far conferire alla moglie nel 1991 il premio Nobel per la pace. È lui che attraverso le varie relazioni internazionali sia in campo diplomatico che religioso riesce a fare ottenere alla moglie la libertà dagli arresti domiciliari. È lui che in fin di vita (muore nel 1999) chiede alla moglie di rimanere in Myanmar (l’ex Birmania) per continuare a lottare per il suo popolo. Luc Besson, mette a confronto la bellezza dell’amore di una donna per il suo popolo con le brutture dell’ignoranza rivelate da militari senza scrupoli che calpestano la dignità umana e che uccidono o fanno uccidere senza porsi neppure il problema della sacralità della vita, militari che non sanno neppure cosa sia la “musica” e quindi l’ armonia, la grazia, la pace, la concordia, il rispetto dell’altro. Luc Besson riesce a far capire tutto questo e ribadisce che il potere in mano all’ignoranza diventa arrogante e violento e per sorreggersi moltiplica senza scrupoli la violenza all’ennesima potenza. Un film da vedere perché il suo stampo cronachistico e realistico fa capire allo spettatore, che non è portato a conoscere tali fatti internazionali, quanta lordura c’è in giro per il mondo.